Tu vuo’ fa’ l’americano
La congiuntura storica tra il modello economico capitalista e la costituzione democratica della maggiori potenze mondiali è alle origini della sovrastruttura di stampo occidentale che ha preso le redini del potere a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Teoria politica ed teoria economica, nei rispettivi significati di gestione dell’uomo e delle risorse a sua disposizione, si sono trovate per la prima volta talmente legate da mescolare i propri interessi in un’unica e ancora vigente causa in grado di elevare gli interessi del prodotto in sé a discapito di quelli del produttore in prima persona. Materie prime, manufatti, ma soprattutto servizi finanziari e altri beni invisibili (felicità, benessere, pace individuale) assumono pertanto un’importanza maggiore degli stessi individui in grado di garantirne l’esistenza.
Il neoliberismo è questo: è il primato del prodotto sul consumatore e sul produttore stesso. I risultati di tale tendenza sono sotto gli occhi di tutti: l’accumulazione vertiginosa del capitale invisibile nella mani di poche decine di persone,[1] l’affossamento di milioni di individui nella povertà più totale e la distribuzione di capitale visibile e coerente al benessere relativo di una buona fetta della popolazione mondiale.[2]
Ma perché accettare tutto ciò? Una possibile risposta può essere lanciata proprio a partire dalla seguente, brutale categorizzazione degli attori coinvolti: 1) L’élite economico-politica è la diretta promotrice di questa carneficina, perciò non ha alcun interesse a immaginare le cose altrimenti, se non negli incubi peggiori. 2) Le masse proletarie e sottoproletarie di ogni angolo del mondo sono fin troppo impegnate alla ricerca di un tozzo di pane per occuparsi di politica ed economia, innescando reazioni di carattere locale e prive di reale impatto nei confronti della piovra globale. 3) La terza categoria è quella che si trova nelle condizioni di aprire gli occhi sulla tragica realtà di tutti i giorni, ma non lo fa affatto o, se ogni tanto si sforza nell’intento, non riesce a trasformare la naturale sofferenza altrui in rabbia collettiva; e questo perché alla teoria neoliberista dobbiamo riconoscere l’elaborazione più ardita dell’uomo dalla nascita delle gradi religioni monoteiste: il concetto di benessere.
La persuasione quale atto di civiltà
Il benessere economico – per come può intenderlo lo sventurato lettore di queste righe – nasce nel momento in cui, con la nascita della proprietà privata e l’istituzione dei governi, un individuo assume una posizione di spicco nei confronti della comunità che gli sta attorno. Re mesopotamici, faraoni, notabili dell’antica Grecia, dittatori e imperatori di ogni dove, monarchi e principi a cavallo tra i secoli… Tutti coloro i quali hanno accumulato ricchezza, negandola ai loro simili, hanno vissuto nel benessere e così è sempre stato. Da sempre un ricco ha vissuto nel lusso col momentaneo benestare delle masse, tenute magistralmente a bada da mirabolanti promesse di luce paradisiaca e decine di vergini per l’eternità ultraterrena. Così, fintanto che la promessa valeva lo sforzo bestiale della miseria, il benessere rimaneva intatto in poche mani di velluto. Ogni tanto, naturalmente, scoppiava una rivoluzione, e allora tutto ricominciava da capo. Altro sovrano, altra religione, stesso sfruttamento.
Il Novecento, che sancisce un crisi religiosa paragonabile a quella – promessa, disillusa – della Riforma protestante, avrebbe potuto segnare una svolta inedita, carica di lungimirante entusiasmo: la truffa del ’68 si risolve tuttora negli occhi delusi di quella generazione. Gli anni ’70 segnarono l’esplosione del conflitto in termini politici, gli ’80 e la terza rivoluzione industriale aprirono le porte al neoliberismo.
Ma come fare, senza religione? Come tenere a bada i prodotti demografici del boom postbellico senza ricorrere alle immagini di un’oasi di pace iperbolica? La congiuntura economico-politica che prende la forma del neoliberismo di stampo reaganiano e thatcheriano risponde a questa pretesa con una mossa rivoluzionaria: altro che benessere eterno, la promessa che tiene legati uomini e donne alla propria miseria è quella di un benessere immediato, libidinosamente materiale. Il concetto è semplice: è il potere d’acquisto che ti renderà felice. Va da sé che ad ogni possibilità economica corrisponderà una gamma diversificata ma comunque soddisfacente di beni a disposizione per il raggiungimento della desiderata soglia di benessere. Ma che ciascuno resti al proprio posto. Il potere della persuasione è garantito, lo status quo imposto da una minoranza mobile e invisibile rimane intatto. Tutto in nome del welfare state.
Siamo tutti coinvolti
Gli operai di Mirafiori lavorano a cottimo con un solo obiettivo: andare in spiaggia la domenica mattina, ciascuno con la propria Fiat Cinquecento nuova di zecca.[3] Per gli amanti dell’arte s’inventa il kitsch, l’università è aperta a tutti. La prole dei contadini può finalmente frequentare i corsi tenuti dai detentori della cultura nazionale, esaudendo il sogno paterno di avere un figlio avvocato. La persuasione supera il campo prettamente materiale e si fa arte, già inglobata nel mercato economico quale prodotto commerciale, proprietà privata del legittimo autore. S’instaura il diritto d’autore e le case editrici, finanziate dai partiti di governo, pubblicano e distribuiscono libri strumentali agli interessi delle diverse componenti del potere, censurando con cura le riflessioni prepotentemente antisistemiche. La televisione sostituisce la messa domenicale, investendo tutto il tempo libero – e i liberi pensieri – dei lavoratori: perché anche questo è benessere. Al contempo s’inferocisce la lotta retorica contro l’uso di sostanze bollate in quanto stupefacenti e contro il piacere sessuale quale affermazione della propria libertà individuale.
È stato affermato che la forza persuasiva in grado di mantenere lo status quo di ingiustizia e abbrutimento generalizzati risiede nel presunto benessere di cui ogni individuo dovrebbe godere. Se stai leggendo questo articolo vuol dire che probabilmente anche tu godi di questo benessere, dato che: 1) sai leggere; 2) hai un computer dotato di schermo luminoso sul quale puoi distinguere delle macchie nere – lettere, parole, frasi – su uno sfondo bianco; 3) fai parte di una rete sociale che ti ha permesso di accedere a questo blog, poco importa ciò che ne pensi veramente, stai dedicando il tuo tempo a queste righe; 4) poco importa da dove vengano i soldi, in questi giorni sei stato al bar, al cinema, al ristorante, in discoteca, ci sei andato in macchina, in moto, in bici, in autobus, hai fatto un viaggio in aereo. Le prove del benessere potrebbero essere tante altre, ma un veloce esame della propria vita rimane il mezzo migliore per rendersi conto del benessere che ci circonda. Naturalmente benessere vuol dire anche aspirare ad avere sempre più, incrementando gli sforzi in attività finalizzate ad aumentare il tuo potere d’acquisto, ergo la tua disponibilità ad acquistare beni materiali.
Riprendendo la categorizzazione di qualche rigo sopra, in questo preciso istante sono sicuro di rivolgermi a quella terza categoria che si trova a cavallo tra i ricchissimi e i poverissimi. Gente come me, insomma, né carne né pesce, schiavi senza alcuna coscienza della propria miseria camuffata in insoddisfazione, distinti in sottogruppi sociali coagulanti attorno a due parametri inamovibili: educazione e professione.
Goin, L’état matraquant la liberté, giugno 2016
Cultura ladra
Nel circuito delle mie conoscenze sotto i trent’anni conosco di gran lunga più studenti universitari – o tali in passato – che operai specializzati, poco importa quale percorso di studio i primi abbiano intrapreso. Per quanto mi riguarda, in considerazione del tempo che spendo sui libri è facile incasellarmi nella vasta categoria di aspiranti professionisti della conoscenza ed è difficile ammetterlo ma le norme che regolano il senso del mio lavoro non evadono dalla logica del capitale. Quando la sete di conoscenza diventa esca degli interessi capitalistici, ecco che l’assioma appare lampante: gli studenti quali prodotto di consumo – sempre a più lunga scadenza – che le università, vere e proprie fabbriche del sapere, propongono al mercato del lavoro; i titoli, le certificazioni e i diplomi quali attestazioni di qualità, DOC, DOP, bio, antiallergenico, per capelli sensibili, inglese livello C1, master e dottorato da sbandierare sul proprio curriculum vitae, alla ricerca di un padrone a tempo indeterminato.
Tutto ciò perché è con la cultura che si otterrà un impiego, quindi uno stipendio e con esso un potere d’acquisto da esaurire nei grandi magazzini al momento propizio dei saldi. Così, strappata alla sua ragion d’essere, la conoscenza diventa strumento dello status quo e i luoghi di conoscenza assumono i caratteri di una qualsivoglia attività imprenditoriale, sottostando alle medesime leggi di domanda e offerta, monopolio e concorrenza.
Inutile dire che un dato apparato educativo non può far altro che creare prodotti accondiscendenti all’organismo totalizzante del capitale. Proprio per questo, in qualità di studenti e lavoratori della conoscenza, il nostro impegno accademico e culturale dovrebbe essere uno soltanto: denunciare questo andazzo con i metodi più coerenti alle nostre finalità e i mezzi più idonei ai nostri interlocutori. La cultura s’intromette nella disputa uomo-capitale con un accendino in mano, minacciando le barbe dei teorici dell’arte.
Perché un antigruppo?
L’Antigruppo è stato un movimento culturale attivo in Sicilia tra gli anni ’60 e’80 del Novecento.[4] Ciò che segue prende spunto da una riflessione per molti aspetti divergente, sviluppandola come potrebbe farlo uno studente universitario di secondo livello nell’Europa della nuova strategia della tensione. Un’Europa antislamica, xenofoba e demagogica.
Mi convinco sempre più che la militanza politica – nella forme variegate dei fini e delle circostanze – sia la più nobile condizione per l’adempimento di qualsiasi presunta comunicazione artistico-culturale. Un vero intellettuale-artista non può negare al proprio lavoro una forma più o meno poderosa di engagement. Più o meno radicale, ciascuno secondo le proprie aspirazioni e la propria sensibilità. Ciascuno disposto ad assumere delle responsabilità di fronte al proprio pubblico e agli altri intellettuali-artisti.
Ma ciò non può avvenire in tv, né sulle pagine dei quotidiani nazionali. L’antigruppo è tale in quanto piattaforma estranea ai mass-media, rete collaborativa e conflittuale che nell’intromissione puntuale, sorprendente e culturalmente coercitiva nei mezzi di comunicazione mainstream trovi il suo senso più profondo. Un sottostare formalmente alle leggi del capitale culturale, permettendosi incursioni occasionali atte alla provocazione per: 1) mettere in crisi lo status quo editoriale, giornalistico, politico ed economico; 2) ribadire la propria distanza dai mezzi d’informazione dominanti; 3) invitare il telespettatore abbrutito a un’inattesa riflessione politica. Non persuasione, bensì provocazione continua, impietosa, eretica.
Dimenticare tutto il ciarpume religioso-psicanalitico-filosofico della pensiero borghese ed esprimersi nel meglio della propria autenticità umana. Contemplare un’alba all’orizzonte, investigarne i colori, rileggere le smanie poetiche da essa suscitate su personalità altrui; e perché no, sbrodolare una riflessione patetica o mettere in dubbio la ricerche della NASA, ma sempre con la giusta distanza: un’alba rimarrà sempre un’alba. Ciò che conta realmente, l’evento irrimediabile che dà significato al sorgere del sole rimane comunque il giorno che nasce, la sveglia dell’operaio che maledice quotidianamente il planning aziendale, l’impiegato che elabora meccanicamente la strategia omicida del capitale, il netturbino che rientra a casa impregnato dei nauseabondi umori urbani. Mentre il poeta sta lì beato a scrivere i suoi versi melanconici, lo stesso poeta che vincerà il prossimo concorso poetico indetto dalla solita cricca di avvoltoi dell’editoria, gli stessi versi che la critica letteraria si prodigherà nel commentare, mettere a tacere o promuovere al rango del canone internazionale.
Un poeta antigruppo vive di affinità, empatie puntuali o perseveranti, infischiandosene di essere riconosciuto dalle élite: non venderà milioni di copie ma avrà adempiuto il suo impegno, conscio che anche privo di benessere non sarà mai privo di comprensione, di affetti, di sincera polemica e partecipazione da parte degli altri poeti antigruppo. E da questa rete, muovere i primi passi. Senza schemi, senza primi della classe: riconoscere il proprio limite individuale sarà un ottimo punto di partenza per affrontare uno sforzo collettivo contro il potere del capitale e tutte le ingiustizie sociali che da esso derivano.
L’intellettuale-artista antigruppo vive dei rapporti umani che lo arricchiscono quotidianamente, negandolo all’isolamento ermetico-romantico e spingendolo a lasciare la sua scrivania per immergersi nella propria città e abbracciare tutta l’umanità che in essa brulica. Egli vive di parole e azioni, perché le prime senza le seconde sono espressioni puntuali e individuale fini e se stesse, mentre le seconde senza le prime si riducono a una prassi politica stantia, celatamente reazionaria. Si tratta di un percorso impervio, fatto di scontri e vibrante polemica, una continua scoperta della miseria che ci unisce; e condividendo questa miseria, sarà più facile farsi forza vicendevolmente, riconoscendo i termini di una più onesta considerazione del genere umano, passando finalmente all’azione. Perché non è improvvisando una danza della pioggia che si restituisce la vita a un campo arido, ma rivoltando il terreno a colpi di zappa, zolla per zolla.
[1] http://www.forbes.com/billionaires/list/3/#version:static
[2] https://www.oxfam.org/sites/www.oxfam.org/files/file_attachments/bp210-economy-one-percent-tax-havens-180116-summ-en_0.pdf
[3] Cfr. N. Balestrini, Vogliamo tutto, Feltrinelli, Milano 1971
[4] http://www.vicoacitillo.it/recen/archivio/antigrup.pdf