Distributori automatici 24/7 per le strade, presso tabacchi (forse saranno di loro proprietà o li diamo in comodato) che eroghino contro prezzo irrisorio (10 cent? 20?) un foglio di carta e una busta da lettera.

No, forse non presso i tabacchi ma accanto a belle librerie (s’intendono tutte quelle che sul frontone non recano il nome di un editore), ma forse ogni bella libreria dovrebbe essere un tabacchi.

E viceversa.

Sarà il design o il Dasein a sancirne il successo?

Nel nulla di almeno un secolo in cui s’è smesso di poter parlare non s’è mai scritto così tanto (istantanea-/telematica-/obnubilata-/coprofagica-mente).

E sposeremmo anche (“Fragilità il tuo nome è matrimonio”) buona parte del drittume hipster postmod, scegliendo come primo target gli adepti del mercimonio del vintage perpetrato da illustri antesignani quali la Signora Polaroid o, meglio, quei bravi ragazzi dell’Orma editore che producono e impacchettano libretti di autori classici e li destinano al cliente già enveloppati e con lo spazio per destinatario e francobollo (o forse i loro Pacchetti sono già affrancati? Ecco, potremmo prevedere la possibilità di donarle anche noi le nostre buste già affrancate (col sovrapprezzo necessario in rapporto alle poste italiane (magari anche con la trasparenza diafana ialina di un packaging tale che il nostro distributore faccia persino vedere il momento della leccata (come i nuovi distributori di bevanda al gusto di caffè ti fanno vedere come da loro esce tale o talaltra cicuta (inserire canzonatura a piacere del rapporto trasparenza-grillismo), e magari prevedere un negro ad eseguire la leccata? (Ma ormai non si lecca più il francobollo e, soprattutto, non possiamo leccare una busta con lettera scritta dentro a priori, sarebbe un business autentico, quindi infame, mentre la nostra proposta si ferma al livello del libello, della boutade (del lavello?)) Per non farci rubare il momento e il “lavoro” più bello, l’unzione mediante secrezione salivare, ricalcherei le orme di queste parentesi e casserei l’idea di dar già francobollate le buste. Che poi il francobollo a parte potremo mai venderlo (visto e considerato il benedetto Stato e il benedetto suo monopolio (che poi, del termine, passa a tutti inosservata la contraddizione pseudoetimologica?)? Non riesco a contarle, chiuderò con frase da ragazzina nuda su tumblr, “alkune parentesi non si kiudono mai”.

Si cercano finanziatori e capitani d’impresa: fiat iustitia (ne?) pereat mundus.

 

Postfazione prefativa (non viceversa, stavolta): Che non si dica che non si sia prodotto nulla a seguito della nostra pulviscolarizzazione come gruppo in Italia, Europa, Mondo della Modernity at large, anzi; ma visto che questo intervento nel suo farsi (sì è tradotto dal persiano, per questo non si capisce molto) si è rivelato allo scrivente come espressamente indirizzato, per volizione sua-di-lui, a quella speciale piccionaia di belle anime che si è e continua ad identificarsi in quell’Alibi che (spero non perdoniate la retorica) sappiamo sempre dove si situa, insiste ma non trova sempremai compostezza né baldassarra castiglionità, e a cui volgeva il pensiero dello scrivente suddetto e sottoscritto, s’è ritenuto opportuno riprendere le credenziali di questi lotti vacanti che ci siamo scavati nell’etere tramite profili, e qui postarlo.

Postfazione S.S. (Strictu Sensu): Questo “intervento” è stato scritto mentre l’autore (non) guardava “Una questione privata”, film recenterrimo dei fratelli Taviani (e, sia detto en passant, che culo essere fratelli in armi cinematografiche e avere già un cognome al plurale!) su rimaneggiamento libero del singolare libro di Fenoglio: si lascia ai celebri venticinque lettori rintracciare o inventare le motivazioni per cui si è prodotto questo pezzo invece che guardare il film, che non si sa se consigliare.

Nota a margine nata nell’immediato prosieguo della (non) visione grazie a simposiarchi occasionali e amici profani: altra idea di business è allevare scarafaggi (Cfr. apocalisse culinario paventato dall’acquisizione de iure condendo della proprietà di commerciabilità/edibilità degli insetti nel Bel Paese), Kafka S.p.a.

 

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Ferdinando Scianna, Marpessa, Acitrezza, 1987

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Le biblioteche a Palermo: uno stato di emergenza culturale

Ho frequentato le biblioteche palermitane sin dai tempi del liceo e quindi per buona parte della mio percorso accademico, semplicemente perché al rombo dell’aspirapolvere della vicina ho sempre preferito il brusio degli altri utenti che si concedono l’ennesima pausa caffè. Come ogni chiesa, anche ogni biblioteca è unica per una serie di peculiarità: la qualità del silenzio, l’intensità della luce, la temperatura cangiante. Dalle sale storiche alle moderne strutture universitarie, questi spazi sono i garanti di un’attività culturale da cui una città metropolitana come Palermo non può prescindere per nessun motivo.

Ma non solo. È in questi spazi, infatti, che nel corso di tanti anni abbiamo creato una rete sociale alternativa ai bar e alle piazze notturne. Tra i banchi delle biblioteche palermitane ci siamo riconosciuti nelle nostre differenze: lettori, studenti, dottorandi, ricercatori, docenti, curiosi di passaggio. Abbiamo condiviso giornate intere col capo chino sui libri, stagione dopo stagione, senza mai trascurare la necessità di un continuo scambio altrove negatoci. Una biblioteca è anche questo: una riserva d’incontri, l’antidoto alla solitudine degli studi.

Sono rientrato in Sicilia pochi mesi fa, dopo un rivelatorio anno accademico presso una modesta università francese. Il ritorno è stato dettato da una sola, ponderata volontà intellettuale: scrivere la mia tesi di laurea magistrale su un manipolo di scrittori e militanti siciliani in azione a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Le loro pubblicazioni sono conservate esclusivamente ed in gran parte presso le due maggiori biblioteche palermitane. Ma avevo fatto un banale errore di calcolo: consultare i volumi dei più ricchi cataloghi locali, in questi mesi, è impossibile.

Tocca fare un passo indietro. Nel febbraio del 2015 le fiamme divorano l’ampio atrio della Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”. Inutile tornare a trattare le cause dell’incendio, così come ipocriti sono i sospiri di sollievo per l’incolumità del milione di volumi che compongono uno dei cataloghi più ricchi d’Italia. Dopo un breve periodo di chiusura, la sala consultazione riapre al pubblico con non pochi problemi logistici e una sostanziale riduzione dei servizi; ma per poco. Da qualche mese, infatti, sono stati intrapresi dei lavori di restauro che hanno provocato la sospensione a tempo indeterminato di tutti i servizi bibliotecari (lettura, consultazione, prestito…) e privato centinaia di utenti di un catalogo unico nel suo genere.

Il 5 settembre scorso si è svolta una verifica delle condizioni di sicurezza nell’intero complesso, alla quale è seguito l’ultimo comunicato ufficiale che conferma la sospensione di tutti i servizi bibliotecari. Dal sito ufficiale della “Alberto Bombace” si legge: «I lavori avranno la durata di circa 7 mesi e sono finalizzati alla necessaria messa in sicurezza dell’Istituto, al restauro architettonico dell’atrio e dell’ingresso principale su corso Vittorio Emanuele, gravemente danneggiato dall’incendio avvenuto lo scorso anno». Resta da chiedersi se almeno il servizio prestiti sarà riattivato prima della fine dei lavori, previsto per il mese di marzo 2017. Gente come me la tesi l’avrà già bell’e discussa, senza aver potuto consultare decine di libri.

Niente “regionale” – come la chiamiamo affettuosamente noi utenti –, niente libri. “Va bene” viene da dirsi “la Biblioteca comunale di Casa Professa riuscirà sicuramente a colmare qualche lacuna bibliografica”. Consulto il sito internet ed ecco che dopo il danno arriva la beffa: «Attualmente il servizio al pubblico è sospeso per lavori in corso». Nessuna ulteriore spiegazione: non mi resta che andare personalmente in piazzetta Brunaccini, dove sono accolto con tante parole di comprensione sì, ma non per questo di conforto. La lista dei libri perduti si amplia sempre più e un pensiero comincia a pulsare sotto le meningi, quasi un tarlo che scava lungo i nodi degli scaffali: forse sarebbe stato meglio scrivere una tesi su tutt’altro, niente Sicilia, niente Palermo, niente di niente.

Le biblioteche del circuito universitario meriterebbero tutto un altro discorso, che qui riduco all’osso: il prolungamento degli orari di apertura di alcune sale non risponde comunque alle necessità degli studenti, che hanno bisogno sì di tempo, ma soprattutto di spazio; il servizio prestiti “a targhe alterne” con orari inspiegabilmente puntuali e ridotti non garantisce una flessibilità nella consultazione, ritardando subdolamente le ricerche in nome di un presunto ordine amministrativo; la burocratizzazione spietata, infine, esclude tutti i non iscritti ai corsi accademici, quasi che la cultura fosse appannaggio di chi è disposto a sborsare le ingenti tasse annuali. Una carneficina, insomma.

La mia sensazione è che la chiusura simultanea dei due maggiori poli bibliotecari urbani rifletta lo stato di una cultura locale che tende sempre più a farsi evento, spettacolo fieristico, rito celebrativo di una cultura ufficiale che nel suo aprirsi al pubblico non fa altro che compiacersi. In un contesto del genere, l’esercizio quotidiano delle ricerche individuali e dei gruppi di studio rimane segregato nei dipartimenti accademici, negli studi privati, nelle biblioteche personali rispondenti alle facoltà economiche dei rispettivi proprietari. In tutto questo processo s’intravede un doppio processo culturale: alla libera fruizione di un’Opera in piazza Verdi fa riscontro la crescente difficoltà nel creare stimoli conoscitivi che siano nuovi, veramente democratici. Perché tra la fruizione/accettazione di un dato pacchetto culturale e l’elaborazione di nuovi percorsi logici la differenza c’è, e non è possibile ignorarla. È il fantasma dell’aridità culturale, invisibile sotto la fitta coltre dei sensazionalismi.

Rimane pur sempre una questione di potere culturale e questa storia – come tante altre storie di cattivo governo – non conoscerà responsabili, ma solo vittime: certamente gli utenti disorientati e, inutile dire, gli impiegati pronti alla mobilità. Ma soprattutto le parole, le idee, le attese di una nuova pagina culturale palermitana: i libri, che di certo rimangono nei magazzini in preda all’incuria, alla polvere, agli acari e, la cronaca non mi smentisce, alle insidie del fuoco.

Il topo da biblioteca (Der Bücherwurm)

Carl Spitzweg, Il topo di biblioteca, olio su tela, 1850 circa.

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Sulla necessità di un antigruppo, ovvero “L’ennesima inchiesta su neoliberismo e cultura del benessere”

Tu vuo’ fa’ l’americano

La congiuntura storica tra il modello economico capitalista e la costituzione democratica della maggiori potenze mondiali è alle origini della sovrastruttura di stampo occidentale che ha preso le redini del potere a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Teoria politica ed teoria economica, nei rispettivi significati di gestione dell’uomo e delle risorse a sua disposizione, si sono trovate per la prima volta talmente legate da mescolare i propri interessi in un’unica e ancora vigente causa in grado di elevare gli interessi del prodotto in sé a discapito di quelli del produttore in prima persona. Materie prime, manufatti, ma soprattutto servizi finanziari e altri beni invisibili (felicità, benessere, pace individuale) assumono pertanto un’importanza maggiore degli stessi individui in grado di garantirne l’esistenza.

Il neoliberismo è questo: è il primato del prodotto sul consumatore e sul produttore stesso. I risultati di tale tendenza sono sotto gli occhi di tutti: l’accumulazione vertiginosa del capitale invisibile nella mani di poche decine di persone,[1] l’affossamento di milioni di individui nella povertà più totale e la distribuzione di capitale visibile e coerente al benessere relativo di una buona fetta della popolazione mondiale.[2]

Ma perché accettare tutto ciò? Una possibile risposta può essere lanciata proprio a partire dalla seguente, brutale categorizzazione degli attori coinvolti: 1) L’élite economico-politica è la diretta promotrice di questa carneficina, perciò non ha alcun interesse a immaginare le cose altrimenti, se non negli incubi peggiori. 2) Le masse proletarie e sottoproletarie di ogni angolo del mondo sono fin troppo impegnate alla ricerca di un tozzo di pane per occuparsi di politica ed economia, innescando reazioni di carattere locale e prive di reale impatto nei confronti della piovra globale. 3) La terza categoria è quella che si trova nelle condizioni di aprire gli occhi sulla tragica realtà di tutti i giorni, ma non lo fa affatto o, se ogni tanto si sforza nell’intento, non riesce a trasformare la naturale sofferenza altrui in rabbia collettiva; e questo perché alla teoria neoliberista dobbiamo riconoscere l’elaborazione più ardita dell’uomo dalla nascita delle gradi religioni monoteiste: il concetto di benessere.

La persuasione quale atto di civiltà

Il benessere economico – per come può intenderlo lo sventurato lettore di queste righe – nasce nel momento in cui, con la nascita della proprietà privata e l’istituzione dei governi, un individuo assume una posizione di spicco nei confronti della comunità che gli sta attorno. Re mesopotamici, faraoni, notabili dell’antica Grecia, dittatori e imperatori di ogni dove, monarchi e principi a cavallo tra i secoli… Tutti coloro i quali hanno accumulato ricchezza, negandola ai loro simili, hanno vissuto nel benessere e così è sempre stato. Da sempre un ricco ha vissuto nel lusso col momentaneo benestare delle masse, tenute magistralmente a bada da mirabolanti promesse di luce paradisiaca e decine di vergini per l’eternità ultraterrena. Così, fintanto che la promessa valeva lo sforzo bestiale della miseria, il benessere rimaneva intatto in poche mani di velluto. Ogni tanto, naturalmente, scoppiava una rivoluzione, e allora tutto ricominciava da capo. Altro sovrano, altra religione, stesso sfruttamento.

Il Novecento, che sancisce un crisi religiosa paragonabile a quella – promessa, disillusa – della Riforma protestante, avrebbe potuto segnare una svolta inedita, carica di lungimirante entusiasmo: la truffa del ’68 si risolve tuttora negli occhi delusi di quella generazione. Gli anni ’70 segnarono l’esplosione del conflitto in termini politici, gli ’80 e la terza rivoluzione industriale aprirono le porte al neoliberismo.

Ma come fare, senza religione? Come tenere a bada i prodotti demografici del boom postbellico senza ricorrere alle immagini di un’oasi di pace iperbolica? La congiuntura economico-politica che prende la forma del neoliberismo di stampo reaganiano e thatcheriano risponde a questa pretesa con una mossa rivoluzionaria: altro che benessere eterno, la promessa che tiene legati uomini e donne alla propria miseria è quella di un benessere immediato, libidinosamente materiale. Il concetto è semplice: è il potere d’acquisto che ti renderà felice. Va da sé che ad ogni possibilità economica corrisponderà una gamma diversificata ma comunque soddisfacente di beni a disposizione per il raggiungimento della desiderata soglia di benessere. Ma che ciascuno resti al proprio posto. Il potere della persuasione è garantito, lo status quo imposto da una minoranza mobile e invisibile rimane intatto. Tutto in nome del welfare state.

Siamo tutti coinvolti

Gli operai di Mirafiori lavorano a cottimo con un solo obiettivo: andare in spiaggia la domenica mattina, ciascuno con la propria Fiat Cinquecento nuova di zecca.[3] Per gli amanti dell’arte s’inventa il kitsch, l’università è aperta a tutti. La prole dei contadini può finalmente frequentare i corsi tenuti dai detentori della cultura nazionale, esaudendo il sogno paterno di avere un figlio avvocato. La persuasione supera il campo prettamente materiale e si fa arte, già inglobata nel mercato economico quale prodotto commerciale, proprietà privata del legittimo autore. S’instaura il diritto d’autore e le case editrici, finanziate dai partiti di governo, pubblicano e distribuiscono libri strumentali agli interessi delle diverse componenti del potere, censurando con cura le riflessioni prepotentemente antisistemiche. La televisione sostituisce la messa domenicale, investendo tutto il tempo libero – e i liberi pensieri – dei lavoratori: perché anche questo è benessere. Al contempo s’inferocisce la lotta retorica contro l’uso di sostanze bollate in quanto stupefacenti e contro il piacere sessuale quale affermazione della propria libertà individuale.

È stato affermato che la forza persuasiva in grado di mantenere lo status quo di ingiustizia e abbrutimento generalizzati risiede nel presunto benessere di cui ogni individuo dovrebbe godere. Se stai leggendo questo articolo vuol dire che probabilmente anche tu godi di questo benessere, dato che: 1) sai leggere; 2) hai un computer dotato di schermo luminoso sul quale puoi distinguere delle macchie nere – lettere, parole, frasi – su uno sfondo bianco; 3) fai parte di una rete sociale che ti ha permesso di accedere a questo blog, poco importa ciò che ne pensi veramente, stai dedicando il tuo tempo a queste righe; 4) poco importa da dove vengano i soldi, in questi giorni sei stato al bar, al cinema, al ristorante, in discoteca, ci sei andato in macchina, in moto, in bici, in autobus, hai fatto un viaggio in aereo. Le prove del benessere potrebbero essere tante altre, ma un veloce esame della propria vita rimane il mezzo migliore per rendersi conto del benessere che ci circonda. Naturalmente benessere vuol dire anche aspirare ad avere sempre più, incrementando gli sforzi in attività finalizzate ad aumentare il tuo potere d’acquisto, ergo la tua disponibilità ad acquistare beni materiali.

Riprendendo la categorizzazione di qualche rigo sopra, in questo preciso istante sono sicuro di rivolgermi a quella terza categoria che si trova a cavallo tra i ricchissimi e i poverissimi. Gente come me, insomma, né carne né pesce, schiavi senza alcuna coscienza della propria miseria camuffata in insoddisfazione, distinti in sottogruppi sociali coagulanti attorno a due parametri inamovibili: educazione e professione.

  Goin, L’état matraquant la liberté, giugno 2016

Cultura ladra

Nel circuito delle mie conoscenze sotto i trent’anni conosco di gran lunga più studenti universitari – o tali in passato – che operai specializzati, poco importa quale percorso di studio i primi abbiano intrapreso. Per quanto mi riguarda, in considerazione del tempo che spendo sui libri è facile incasellarmi nella vasta categoria di aspiranti professionisti della conoscenza ed è difficile ammetterlo ma le norme che regolano il senso del mio lavoro non evadono dalla logica del capitale. Quando la sete di conoscenza diventa esca degli interessi capitalistici, ecco che l’assioma appare lampante: gli studenti quali prodotto di consumo – sempre a più lunga scadenza – che le università, vere e proprie fabbriche del sapere, propongono al mercato del lavoro; i titoli, le certificazioni e i diplomi quali attestazioni di qualità, DOC, DOP, bio, antiallergenico, per capelli sensibili, inglese livello C1, master e dottorato da sbandierare sul proprio curriculum vitae, alla ricerca di un padrone a tempo indeterminato.

Tutto ciò perché è con la cultura che si otterrà un impiego, quindi uno stipendio e con esso un potere d’acquisto da esaurire nei grandi magazzini al momento propizio dei saldi. Così, strappata alla sua ragion d’essere, la conoscenza diventa strumento dello status quo e i luoghi di conoscenza assumono i caratteri di una qualsivoglia attività imprenditoriale, sottostando alle medesime leggi di domanda e offerta, monopolio e concorrenza.

Inutile dire che un dato apparato educativo non può far altro che creare prodotti accondiscendenti all’organismo totalizzante del capitale. Proprio per questo, in qualità di studenti e lavoratori della conoscenza, il nostro impegno accademico e culturale dovrebbe essere uno soltanto: denunciare questo andazzo con i metodi più coerenti alle nostre finalità e i mezzi più idonei ai nostri interlocutori. La cultura s’intromette nella disputa uomo-capitale con un accendino in mano, minacciando le barbe dei teorici dell’arte.

Perché un antigruppo?

L’Antigruppo è stato un movimento culturale attivo in Sicilia tra gli anni ’60 e’80 del Novecento.[4] Ciò che segue prende spunto da una riflessione per molti aspetti divergente, sviluppandola come potrebbe farlo uno studente universitario di secondo livello nell’Europa della nuova strategia della tensione. Un’Europa antislamica, xenofoba e demagogica.

Mi convinco sempre più che la militanza politica – nella forme variegate dei fini e delle circostanze – sia la più nobile condizione per l’adempimento di qualsiasi presunta comunicazione artistico-culturale. Un vero intellettuale-artista non può negare al proprio lavoro una forma più o meno poderosa di engagement. Più o meno radicale, ciascuno secondo le proprie aspirazioni e la propria sensibilità. Ciascuno disposto ad assumere delle responsabilità di fronte al proprio pubblico e agli altri intellettuali-artisti.

Ma ciò non può avvenire in tv, né sulle pagine dei quotidiani nazionali. L’antigruppo è tale in quanto piattaforma estranea ai mass-media, rete collaborativa e conflittuale che nell’intromissione puntuale, sorprendente e culturalmente coercitiva nei mezzi di comunicazione mainstream trovi il suo senso più profondo. Un sottostare formalmente alle leggi del capitale culturale, permettendosi incursioni occasionali atte alla provocazione per: 1) mettere in crisi lo status quo editoriale, giornalistico, politico ed economico; 2) ribadire la propria distanza dai mezzi d’informazione dominanti; 3) invitare il telespettatore abbrutito a un’inattesa riflessione politica. Non persuasione, bensì provocazione continua, impietosa, eretica.

Dimenticare tutto il ciarpume religioso-psicanalitico-filosofico della pensiero borghese ed esprimersi nel meglio della propria autenticità umana. Contemplare un’alba all’orizzonte, investigarne i colori, rileggere le smanie poetiche da essa suscitate su personalità altrui; e perché no, sbrodolare una riflessione patetica o mettere in dubbio la ricerche della NASA, ma sempre con la giusta distanza: un’alba rimarrà sempre un’alba. Ciò che conta realmente, l’evento irrimediabile che dà significato al sorgere del sole rimane comunque il giorno che nasce, la sveglia dell’operaio che maledice quotidianamente il planning aziendale, l’impiegato che elabora meccanicamente la strategia omicida del capitale, il netturbino che rientra a casa impregnato dei nauseabondi umori urbani. Mentre il poeta sta lì beato a scrivere i suoi versi melanconici, lo stesso poeta che vincerà il prossimo concorso poetico indetto dalla solita cricca di avvoltoi dell’editoria, gli stessi versi che la critica letteraria si prodigherà nel commentare, mettere a tacere o promuovere al rango del canone internazionale.

Un poeta antigruppo vive di affinità, empatie puntuali o perseveranti, infischiandosene di essere riconosciuto dalle élite: non venderà milioni di copie ma avrà adempiuto il suo impegno, conscio che anche privo di benessere non sarà mai privo di comprensione, di affetti, di sincera polemica e partecipazione da parte degli altri poeti antigruppo. E da questa rete, muovere i primi passi. Senza schemi, senza primi della classe: riconoscere il proprio limite individuale sarà un ottimo punto di partenza per affrontare uno sforzo collettivo contro il potere del capitale e tutte le ingiustizie sociali che da esso derivano.

L’intellettuale-artista antigruppo vive dei rapporti umani che lo arricchiscono quotidianamente, negandolo all’isolamento ermetico-romantico e spingendolo a lasciare la sua scrivania per immergersi nella propria città e abbracciare tutta l’umanità che in essa brulica. Egli vive di parole e azioni, perché le prime senza le seconde sono espressioni puntuali e individuale fini e se stesse, mentre le seconde senza le prime si riducono a una prassi politica stantia, celatamente reazionaria. Si tratta di un percorso impervio, fatto di scontri e vibrante polemica, una continua scoperta della miseria che ci unisce; e condividendo questa miseria, sarà più facile farsi forza vicendevolmente, riconoscendo i termini di una più onesta considerazione del genere umano, passando finalmente all’azione. Perché non è improvvisando una danza della pioggia che si restituisce la vita a un campo arido, ma rivoltando il terreno a colpi di zappa, zolla per zolla.

[1] http://www.forbes.com/billionaires/list/3/#version:static

[2] https://www.oxfam.org/sites/www.oxfam.org/files/file_attachments/bp210-economy-one-percent-tax-havens-180116-summ-en_0.pdf

[3] Cfr. N. Balestrini, Vogliamo tutto, Feltrinelli, Milano 1971

[4] http://www.vicoacitillo.it/recen/archivio/antigrup.pdf

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Marina Ginestà

Otto m'arzo

il sì al posto del no
il fai come vuoi al posto del no
il va bene al posto del no
le cartine al tornasole
il 6-tiguanine di Gertrude B. Elion, farmaco contro la leucemia
gli occhi
il vetro antiriflesso
i pannolini collo strappo
i bengala per le segnalazioni marittime
il tergicristallo
il no al posto del no
la lotta armata
la superfibra in kevlar
me
invenzioni delle femmine
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Otto marzo (un anno dopo)

Otto marzo duemilaquindici, festa della donna. L’odore dei mazzetti di mimose ostentate dai venditori ambulanti ravvivava l’aria fredda della notte, mentre le coppie tornavano a casa per fare l’amore e i superstiti cercavano altri superstiti per stilare una rassegna delle proprie frustrazioni. Nel silenzio della casa che era bunker e chiesa sconsacrata, Arturo ripensò alle donne della sua vita, dalla prima all’ultima, dai primi vagiti ai languori che rendevano inutile anche quella notte.

Immaginò sua madre nella sala parto in cui l’aveva appena messo al mondo contro la sua volontà. Accanto a lei c’era suo padre, compiaciuto nel vederlo e visibilmente imbarazzato. Nello sguardo di lei c’era qualcosa di autorevole: era lo sguardo di chi può finalmente tirare un sospiro di sollievo, prima di rendersi conto del danno compiuto.

Vide la sua maestra dell’asilo, paziente e innamorata di tutti i suoi bambini, giovane donna alle prese con un futuro incerto. Nei suoi occhi neri c’era un sogno di quiete e felicità. Il suo ricordo era sfocato, ma quando pensava a lei immaginava un volto malinconico, come di chi si è rassegnato a un destino di cui non conosce molto, se non la sua ineluttabilità.

Ricordò un’amica, sorella e compagna di buona parte delle sue sventure. Sorseggiava con lei una birra: era ormai uno studente promettente, carico di speranze e di paure. Nei suoi occhi riscoprì tutta l’amarezza degli addii ai quali non ci si vorrebbero mai piegare, l’insostenibile necessità di strappare a morsi il tempo che ci divora, di saccheggiare la vita in tutta la sua straordinarietà. Riscrisse nella sua mente tutte le parole imparate in quegli anni, quando si stava nel presente, quando ogni abbraccio si esauriva in se stesso perché altrimenti avrebbe fatto troppo male.

Accarezzò ancora una volta quella che a lungo aveva considerato la donna della sua vita, la paziente guardiana della sua integrità morale. Pensò a lei come la sola donna che avesse amato veramente, perché il suo amore era anche quello di lui, perché era in lei che trovava tutto se stesso. Ma neanche questo era sufficiente, neanche tutto l’affetto di allora poteva fugare l’anelito alla libertà che lo spingeva oltre quelle mura. L’amava, è vero, ma il bisogno di amore gli imponeva una ricerca che non poteva esaurirsi così facilmente.

Nelle sue parole meno lucide ritrovò l’assurdo splendore di una donna che non era mai esistita, se non nella sua immaginazione. L’aveva strappata dai romanzi di uno scrittore italoamericano e aveva finito per convincersi di amarla. Dopo due anni e mezzo di schizofrenia, la cura è arrivata d’un colpo: nelle sue parole finalmente sincere aveva accettato la realtà che eppure aveva già riconosciuto nei peggiori momenti di lucidità. La pelle ne ha risentito, il morale si è assopito sotto una coltre di neve. Era stato bello vedere la sua città imbiancata a Capodanno, bello non pensare più a lei come a qualcosa di reale.

Pensò alle donne che avrebbe voluto avere lì, in quel preciso istante. Forse si stavano avvelenando in un bar stracolmo di gente, forse qualcuno le aveva già adocchiate. Forse erano in una stanza poco illuminata, le coperte a celare due corpi nudi. Si trovavano in capo al mondo o a poche centinaia di metri da quella casa; si sarebbe voltato e le avrebbe scovate alle sue spalle, oppure avrebbe potuto cercarle invano, su e giù per la nostra immensa, moribonda Europa. Pensò ai loro sguardi nei treni, in biblioteca, nel traffico, al cinema, nei piccoli paesi in festa. In loro vide sempre la stessa malinconia, la stessa insicurezza che riconobbe in se stesso: per questo avrebbe voluto averle lì con lui, perché cingere i loro fianchi lo avrebbe fatto stare bene, perché nel suo pensare sempre a se stesso avrebbe potuto dare loro una mano.

Otto marzo duemilasedici. Il silenzio della casa è infranto solo dal battere della pioggia sulle strade e dal sordo ronzare del frigo in cucina. Non cesserà di piovere fino a venerdì, forse anche più tardi. Il frigo non è un problema: smetterà da un momento all’altro, per poi ricominciare quando ormai si sarà addormentato. In quel preciso istante, di tutte le donne della sua vita non rimarrà più niente, non il ricordo, non il rancore, nessuna aspettativa. Nei sogni riscoprirà se stesso, indifferente a ciò che lo circonda, e in mano stringerà un mazzetto di mimose, solo per sé.

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